Diario: 22 Novembre 2021
Aggiornamento: 14 giu

«Possibile che nessuno capisca che devono venire qui?»
La voce stridula della donnetta, che, a difficoltà, raggiunge il metro e cinquanta di altezza mi investe facendomi sentire un po’ idiota.
«Se nessuno ci dice dove andare, signora» le rispondo con un sorriso celato sotto la mascherina azzurra.
«Il numero è lì» sbraita indicando una piccola targhettina sopra la porta.
Continuo a sorridere, cercando un po’ di solidarietà.
«Ma io sono qui proprio perché non ci vedo».
Mi aspetto che la persona sotto il camice bianco capisca l’ironia, ma il suo senso dell’umorismo deve essere direttamente proporzionale ai suoi centimetri.
Mi investe di ordini contraddittori, quasi a volermi punire per la mia schiettezza.
Il mio sorriso si trasforma in una smorfia che rivela la mia impotenza, ma non può vederla per la solita mascherina.
Sono nelle loro mani e se decidono di strapazzarmi come una bambina dell’asilo, devo lasciarglielo fare.
«Ma ha le calze lunghe?»
Osservo i miei collant. Siamo a novembre, l’aria è gelida e piove ininterrottamente da due ore.
«Beh sì» tartaglio chiedendomi dove possa essere il problema. Devo fare un elettrocardiogramma e un prelievo di sangue. Nulla, deduco, che possa interessare le parti basse del mio corpo, ma taccio.
«Si scopra il torace».
Tolgo la maglietta intima.
«Quella può tenerla. La può tirare su».
Mi sdraio.
«Tolga il reggiseno».
Ripeto nella mente maglietta sì, reggiseno no.
Sempre più disorientata mi domando se il mio vocabolario coincida con il suo. Obbedisco in balìa di questa piccola dittatrice.
«Ora si rilassi» abbaia con il solito modo sbrigativo.
Cerco di farlo, ma non ne sono certa. Immagino l’ago della macchina registrare ampie e preoccupanti onde.
Nel frattempo mi preleva tre fialette di sangue e mi inzuppa gli occhi di collirio.
Ora si alzi. Eseguo.
«Non così in fretta. Abbiamo tempo, anche se non troppo».
Scendo dal lettino lentamente e mi rivesto rapida, evitando movimenti bruschi. Non voglio irritarla oltremodo.
Mi spinge verso l’uscita indicandomi il percorso verso un’altra sala.
Mi aspetta un dottore oculista. Sembra gentile, ma rimango diffidente.
Mi visita e con fare allegro mi comunica che la mia cataratta è peggiorata.
Dovrei ridere o mostrarmi preoccupata?
Mi ripeto che la colpa non è mia, ma del covid e dei loro sindacalisti che hanno deciso di protrarre la chiusura delle sale operatorie oculistiche oltre le reali esigenze.
Ma ancora una volta taccio.
Qualcosa mi dice che sarà lui a operarmi e non vorrei che per rappresaglia decidesse di incidermi l’occhio sbagliato.
Sospiro, mentre vengo invitata a raggiungere una terza sala.
Lei è simpatica. Non so chi sia. Non si presenta, ma in compenso mi chiede altezza e peso. Scrive il mio nome su un foglio. Sorride e mi vomita addosso decine di informazioni che temo possa dimenticare in pochi minuti.
Chiedo notizie sui tempi di attesa.
«Guardi» abbassa il tono di voce, quasi volesse confidarmi un segreto intimo.
Mi allungo verso di lei, timorosa di perdermi qualche parola rivelatrice di un destino ineffabile.
«Solitamente chiamiamo in quindici giorni»
Esulto silenziosamente. Finalmente tornerò a vedere bene.
Mi accorgo, però, che sta aggiungendo dell’altro. C’è un ma, come sempre!
«Stanno riaprendo il reparto COVID, quindi attenda a prendere i colliri che le ho indicato in questo foglio».
I miei occhi devono riflettere tutta la mia disperazione, perché lei si affretta a confortarmi con un speriamo, condito da un sorriso smagliante.
Ringrazio e saluto.
Mi precipito fuori da quel dedalo infinito di stanze, corridoi e scale. Mi fiondo all’esterno, sotto la pioggia.
“Cazzo” impreco.
Ho dimenticato il mio ombrellino in qualche stanza.
Non torno indietro. Non voglio rivedere quei volti e sentire quelle voci.
Che se lo tengano.
Osservo uno dei tanti fogli compilati che mi hanno cacciato in mano.
LUISETTI. Ancora una volta hanno storpiato il mio cognome.
Sospiro rassegnata.
Sono nelle loro mani e non posso farci nulla.
Foto di Luan Rezende da Pexels