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Il campione

Aggiornamento: 14 giu 2023



Era stato presentato come l’atleta che avrebbe fatto la differenza.

Quella frase lo infastidì, perché lui non faceva la differenza: lui era la differenza.

Lui era il campione in mezzo a un gruppo di ragazzi che venivano definiti agonisti solo per essersi sottoposti ad accertamenti medici e aver pagato un’iscrizione a una società che subiva da anni un’emorragia di atleti.

Ex finti sportivi che saltavano da uno sport all’altro senza convinzione e carattere.

Lui aveva vinto molto, era più che promettente. Lui era il futuro di quello sport e quell’anno avrebbe raggiunto il gradino più alto del podio e salutato quel manipolo di dilettanti per approdare fra i professionisti.

E anche lì, lui avrebbe brillato. Avrebbe scalato classifiche europee e mondiali prima di raggiungere i vent’anni. Ne era certo.

Suo padre era dietro di lui, un tronfio pallone in abiti dozzinali.

Quanto gli dava fastidio quella mano posata sulla sua spalla, quel modo di guardarsi intorno, quasi a sottolineare la relazione che intercorreva fra i due, come se quel legame di sangue lo elevasse a chissà quale ruolo sociale.

Temeva cominciasse a parlare per rivelare ciò che era veramente: un rozzo ignorante in attesa di un riscatto che avrebbe raggiunto solo attraverso i successi del suo erede.

Si guardò intorno.

Gli altri ragazzi lo osservavano con indifferenza mista a insofferenza e a lui non importava.

Aveva raggiunto quella meta per poter fare il grande balzo.

L’allenatore conosceva un paio di persone giuste all’interno della nazionale e sarebbe bastato quell’oro come biglietto da visita per accedere all’olimpo degli atleti che contano.

Il giorno della gara arrivò più in fretta di quanto pensasse e i suoi pensieri correvano al futuro imminente.

Con spavalderia raggiunse la postazione e ignorò l’accelerazione del suo battito.

Era sicuro del risultato e la sua fantasia correva alla medaglia intorno al collo e al prossimo trasloco a Roma, dove avrebbe iniziato la sua carriera sportiva nel giro di pochi mesi.

L’errore arrivò subito, imprevisto come un fulmine in una giornata di sole, e si bloccò, incapace di proseguire.

Si voltò trovandosi addosso gli occhi esterrefatti dell’allenatore e lo sguardo disinteressato di chi riconobbe come l’osservatore che gli avrebbe potuto aprire le porte del suo paradiso personale.

Si riprese e tentò di concentrarsi. Doveva dimostrare di essere un vero atleta e quello sbaglio gli avrebbe offerto la possibilità di comprovare il suo valore e la sua forza d’animo.

La sequenza seguente fu eseguita magistralmente. Si rilassò e arrivò un secondo errore, poi un terzo.

Il panico gli strinse lo stomaco e gli occhi si inumidirono per le lacrime che cominciarono a rigargli il volto paonazzo.

Un compagno di squadra stava sogghignando e poco lontano, suo padre livido di rabbia, digrignava i denti.

Tentò di riprendersi, ma la paura lo investì bloccando ogni movimento.

Non terminò la gara.

Uscì dalla palestra singhiozzando e maledicendo il destino avverso.

Nessuna medaglia, nessuna nazionale, nessun futuro a Roma.

La sua carriera era terminata prima ancora di decollare.

«Se te ne vai sei fuori dalla mia squadra».

Si girò.

Il suo allenatore l’aveva rincorso per fargli una paternale.

«Essere campioni vuol dire rialzarsi e ricominciare».

Insieme alla frase di decubertiana memoria “l’importante è partecipare”, aveva sentito centinaia di volte quella vuota e insulsa affermazione da Baci Perugina, ma mai era stata rivolta a lui.

A grosse falcate si avvicinò anche il padre che prese le difese del figlio scagliandosi contro l’allenatore e accusandolo di non averlo preparato adeguatamente.

Lasciò i due uomini a insultarsi vicendevolmente e tornò a pensare a se stesso.

Nonostante la debacle, si sentiva superiore a tutto e a tutti. Avrebbe ricominciato, ma con un altro sport. Avrebbe bruciato le tappe e tutti si sarebbero ricordati di lui.

Lo fece.

Una, due, tre volte. E tutte le volte raggiungeva traguardi considerevoli, per poi precipitare sempre nei momenti più importanti.

Cambiò scuola, poi, da adulto, passò da un lavoro all’altro.

Lui era migliore di tutti, era il più bravo, il più intelligente, il più talentoso e considerava tempo perso rimanere laddove non era considerato.

Era stato inviso, allontanato, ignorato, beffeggiato. Erano invidiosi e lo avevano sempre ostacolato.

Chi non lo accettava non meritava la sua compagnia. E lui, della compagnia, non sapeva cosa farsene.

Aveva una vita da pianificare, un successo da raggiungere.

La sua convinzione lo accompagnò per tutta la vita e per tutta la vita continuò a fare ciò che sapeva fare meglio: fuggire.

La sua morte arrivò improvvisa.

Non comprese neppure che il suo tempo sulla terra era scaduto.

Solo e rancoroso esalò il suo ultimo respiro con la convinzione di essere stato, sempre e comunque, un campione.




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