Mai più
Aggiornamento: 14 giu

“Acqua. Soltanto acqua.”
Da capotavola la saccente pediatra pronuncia il suo verbo con sicurezza.
“Ai bambini e ai ragazzi non bisogna dare bevande gassate. Sono veleno, fanno malissimo.”
“Neppure in un giorno speciale?” domanda timidamente una ex compagna.
“Acqua” risponde la dottoressa.
Mi sforzo di rimanere seria mentre immagino, fra qualche anno, le sue figlie allungare la preziosissima acqua con un superalcoolico.
La osservo. Non è cambiata molto da quando l’avevo vista l’ultima volta, molti anni prima nel corso della seconda prova scritta dell’esame di maturità.
La secchiona della classe, la madre Teresa made in Italy, la ragazza tutta casa-chiesa-scuola è rimasta uguale nell’aspetto, un po’ meno nel carattere. Arrogante e presuntuosa ricorda incessantemente a tutte noi la sua laurea in medicina, il matrimonio e le due figlie.
Le rievoco la nostra esperienza di rappresentanti di classe, ma lei passa oltre con fare distratto.
Prosegue a raccontare la sua vita, le sue esperienze ospedaliere, il suo mondo pregiato.
Poco chiede alle altre, nulla a me.
Sbircio l’orologio cercando di non farmi notare. La serata è interminabile e il vociare è assordante. Fingo di sentire, annuisco con la testa e sorrido.
Risollevo il braccio sinistro, stavolta senza nascondere il mio gesto.
Qualcuno annuncia alla platea che ho scritto un paio di romanzi. Io arrossisco e dico “poca cosa”.
La dottoressa non mi degna di uno sguardo.
Osservo il suo volto allungato e ricordo che qualcuno la chiamava “la cavallona”. Stavolta non faccio nessuno sforzo per trattenere la risata, tanto so che nessuno mi noterà.
Nascondo, invece, uno sbadiglio e cerco nella borsa il cellulare. Manifesto i classici segnali che testimoniano la noia mortale di una serata sbagliata.
Ho sempre odiato le rimpatriate perché mi ricordano che sono invecchiata, perché sanno di bilancio di una vita, perché ci sarà un valido motivo se nel corso degli anni ho perso contatti con determinate persone, perché odio fingere di ricordare aneddoti che ho sistematicamente rimosso dalla memoria.
Le lancette dell’orologio, anche se lentamente, svolgono egregiamente il loro compito e finalmente arriva l’ora di accomiatarsi. C’è chi propone una data per ritrovarsi e io mi guardo bene dal mostrarmi entusiasta.
Ci salutiamo frettolosamente e raggiungo la mia auto ad ampie falcate.
“Mai più” ripeto nella mia mente “mai più”.
Ingrano la marcia, alzo il volume dell’autoradio e ritorno felice al mio presente.
Foto di Andrey Grushnikov