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  • Immagine del redattoreStefania Lusetti

Perchè proprio a me



Il trillo costante del telefono l’aiutava a non pensare.

Sdraiata sul letto contava ad alta voce i secondi che si intervallavano tra uno squillo e l’altro e quando la casa tornava a essere investita dal silenzio lei attendeva pazientemente che il suono riprendesse. E ciò avveniva con altrettanta regolarità.

Marica, a distanza di ore, aveva ancora nelle orecchie le grida disperate di suo figlio.

Coetanei di Tommaso in divisa di carabiniere l’avevano trascinato fuori casa e lei era rimasta immobile a osservare la scena con espressione apatica, come se ciò che stava accadendo non la riguardasse.

Aspettava da giorni questo momento. Sapeva che sarebbe stato il prossimo passo, ma aveva sempre sperato nel miracolo. E laddove gli investigatori auspicavano di trovare la prova che potesse chiudere definitivamente il caso, lei si era cullata nell'illusione che quella stessa prova sarebbe servita a scagionare suo figlio.

Era arrivato il momento di affrontare la realtà: Tommaso era un assassino.

L’unico che continuava a credere all’innocenza del ragazzo era suo marito.

Giorgio l’aveva quasi implorata di andare con lui in carcere, ma lei aveva rifiutato.

Era salita in camera e si era rannicchiata sul letto coprendosi completamente con le coperte.

Era riuscita perfino ad addormentarsi senza sognare.

Si svegliò parecchie ore dopo. Guardò fuori dalla finestra. Era buio.

Qualche giornalista si aggirava ancora lungo la via, ma i più dovevano essersi spostati verso il carcere in attesa della confessione di Tommaso.

Ma chi era suo figlio se non un estraneo?

Sentì la porta di casa aprirsi e suo marito imprecare.

Lei non disse nulla.

Il telefono riprese a squillare. Marica sollevò la cornetta e la riappoggiò alla forcella delicatamente, poi armeggiò con il filo e lo staccò dalla presa.

Si avvicinò al muro su cui erano appese diverse fotografie.

Si soffermò su una che ritraeva Tommaso al suo primo giorno di scuola con il grembiulino nero e uno zainetto in spalla mentre osservava spaventato l'edificio che da lì a pochi minuti lo avrebbe inghiottito.

Non aveva mai frequentato la scuola materna, quindi la prima elementare rappresentava per lui il primo vero distacco dalla famiglia.

Marica ricordava ancora il suo sguardo smarrito, ma a differenza di qualche suo compagno, non aveva ceduto alle lacrime. Aveva osservato i suoi genitori con un po' di rancore e poi si era incamminato verso il portone senza mai guardarsi indietro.

A piangere era stata lei. Avrebbe voluto chiamarlo indietro e stringerselo al petto, ma sapeva sarebbe stato un gesto puerile che non avrebbe portato a nulla, se non a ritardare inutilmente l'entrata in classe.

Passò all’immagine accanto. Quella su cui era ritratto Tommaso nel giorno della sua laurea. La osservò con attenzione, quasi fosse la prima volta.

Vicino a lui c’era Martina. Lo guardava con tenerezza, mentre lui rideva spavaldo all’indirizzo della macchina fotografica indicando con l’indice la corona d’alloro sul capo.

Erano passati soltanto venticinque giorni da quello scatto.

Avvertì una fitta allo sterno, lo stomaco che si stringeva e un senso di nausea difficile da soffocare.

Staccò entrambe le foto dal muro e le ripose nell’ultimo cassetto del settimino, quello destinato alle lenzuola vecchie che non si decideva mai a buttare via.

Scese i gradini silenziosamente e si avviò verso la cucina.

Prese la pentola, la riempì d’acqua e la mise sul fuoco.

Si voltò e vide Giorgio appoggiato allo stipite della porta che scuoteva la testa aggrottando la fronte per esprimere tutta la sua insofferenza nei confronti della donna.

«Nostro figlio è in galera e tu pensi a cucinare?»

«Non mangiamo nulla da ieri sera e fare uno sciopero della fame non lo farà uscire prima».

La donna prese un vasetto di sugo e lo versò in un secondo pentolino.

«Perché non sei voluta venire con me? Lui ha bisogno di noi, del nostro sostegno».

«Sei riuscito a vederlo?»

«No, ma l’avvocato mi ha assicurato che glielo avrebbe detto. Gli avrebbe detto che suo padre c’era». Sottolineò con enfasi le parole suo padre e Marica finse di ignorarle.

«E quei maledetti là fuori stavano cercando di intervistarmi. Ti rendi conto? Cosa vogliono da noi? Perché non ci lasciano in pace?»

«Stanno facendo solo il loro lavoro».

La voce di Marica era pacata, quasi riflessiva.

«Da che parti stai?»

«Dalla parte della giustizia. E i giornalisti fanno semplicemente il loro dovere».

«Sei sua madre. Possibile che non riesci a provare un po' di pietà per lui? Perché sei rimasta a casa? Perché non hai neppure tentato di raggiungerlo?»

«Perché l'ho visto chiuso in questa casa per venti giorni, venti dannatissimi giorni e in tutto questo tempo non ha saputo dirci nulla. Non ha mai proclamato la sua innocenza. Non mi ha mai parlato. La verità la conosciamo tutti, Giorgio. Se è stato così uomo per ammazzare, sia uomo anche per confessare il suo crimine»

«Dio mio, non ci posso credere» Giorgio la guardò scandalizzato «Io impreco contro i giornalisti che hanno condannato Tommaso prima del processo e tu sei peggio di loro».

Marica continuò imperterrita a trafficare con piatti e posate.

«Spaghetti?»

E mentre apriva la confezione della pasta sentì un frastuono alle sue spalle, si girò e vide a terra il portafrutta in ceramica frantumato. Mentalmente disse addio all’unico regalo di matrimonio di sua suocera.

Seguì con lo sguardo una mela rossa che rotolava lontano.

Suo marito afferrò le chiavi dell’auto e uscì per la seconda volta in poche ore.

Marica spense il fuoco, si sedette al tavolo e lanciò un urlo disperato.

Il vecchio pendolo aveva appena battuto nove rintocchi quando Giorgio rientrò a casa.

Marica era seduta sul divano con le gambe ripiegate sotto di sé, il telecomando in mano e lo sguardo ipnotizzato di fronte allo schermo mentre osservava il marito in televisione scansare i giornalisti e una voce fuori campo parlare di suo figlio.

La luce della cucina era accesa e per terra c’erano ancora i resti del portafrutta che lui aveva distrutto.

Con la coda dell’occhio vide Giorgio aprire la porta del ripostiglio, recuperare scopa e paletta e ripulire il danno fatto. Lo vide accendere le fiamme sotto le pentole riempite e attendere pazientemente che l’acqua bollisse.

Si alzò, raggiunse il marito e gli accarezzò il collo. Lui si girò e l’abbracciò lasciandosi andare a un pianto liberatorio.

Svogliatamente avevano mangiato degli spaghetti lasciandone più di metà nei rispettivi piatti. Il loro silenzio veniva compensato dalla TV che trasmetteva un gioco a quiz. Marica sobbalzò quando il marito le chiese perché non credesse all’innocenza di Tommaso.

«Perché non siamo obiettivi e gli investigatori hanno elementi che noi non abbiamo».

«Ma conosciamo nostro figlio e sappiamo entrambi che non farebbe male a nessuno».

«Ne sei così sicuro?»

«E’ nostro figlio, Marica. Devi credergli. Non mentirebbe in modo così spudorato, non a noi».

Il silenzio tornò.

Solo lei sapeva quanto avesse provato a credere a ciò che continuava a ripetere Giorgio sull’innocenza di Tommaso, ma di notte, inquieta nel letto a contare le ore che la separavano dall’alba riusciva a immaginare suo figlio commettere l’atroce omicidio.

Perché qualcuno diverso da lui avrebbe dovuto uccidere Martina?

Era una ragazza dolce, semplice e mite, troppo mite per l’esuberanza di Tommaso. Quella giovane donna, a lei, era sempre piaciuta, ma sapeva che la relazione con il figlio non sarebbe durata a lungo.

Troppo accondiscendente, gentile e premurosa. Suo figlio era l’opposto. L’aveva tradita più di una volta e lei lo sapeva. Era sua madre e certe cose le intuiva.

Giorgio, invece, vedeva in Tommaso sé stesso.

No! Non sé stesso. La proiezione di chi avrebbe voluto essere.

Il marito e il figlio, caratterialmente, non avevano un solo elemento che potesse accomunarli, ma il coniuge adorava tutto di Tommy, rideva a ogni battuta anche se discutibile, ammirava la sua grinta, invidiava la sua sicurezza.

Tommaso era tutto ciò che Giorgio avrebbe voluto essere da giovane.

Un pensiero stravagante la turbò. Anche lei avrebbe voluto avere accanto un uomo con lo stesso carattere di suo figlio, piuttosto di suo marito.

Omicidio compreso? Una voce maligna nella sua mente la turbò.

Tornò a osservare il marito e si domandò come avesse fatto a sopportare quel matrimonio così a lungo.

Avrebbe dovuto lasciarlo anni fa, ma trovava sempre una scusa per procrastinare e ogni motivazione era sempre legata a Tommaso. Voleva per il figlio una vita serena e si era ripromessa che avrebbe chiuso con il marito non appena Tommy si fosse sistemato professionalmente.

Tutta la vita di Marica era sempre girata intorno al ragazzo, come un satellite intorno alla stella più luminosa.

Rimase incinta a vent’anni e la sensazione che provò fu quella di una voragine pronta a inghiottire gli anni migliori della sua vita.

Stentava a crederci, ma gli esami del sangue non mentivano.

Il progetto originale di quella sera di ventisei anni prima era chiudere la storia con Giorgio e festeggiare con la sua migliore amica la fine della relazione con il ragazzo più prevedibile e noioso che avesse mai conosciuto. Era carino, ma ciò non bastava a chi, come lei aspirava a una vita frizzante.

Improvvisamente, un ritardo mestruale e un esame ematico la portarono a riconsiderare tutta la sua vita futura.

Informò Giorgio immaginandosi la reazione e non ne fu delusa.

L’uomo la strinse fra le braccia e le propose di sposarlo. Rispose con un sì.

Non vedeva altre alternative. L’aborto era fuori discussione.

Però riteneva impossibile crescere un figlio sola. Da pochi mesi aveva trovato un lavoro part-time nella piccola libreria del paese e quei pochi soldi non sarebbero bastati neppure a pagarsi l’affitto di un monolocale, figurarsi mantenere lei e il bambino.

Sposarsi sembrava l’unica scappatoia possibile a una emergenza contingente come quella di una maternità non preventivata.

Dopo una gravidanza trascorsa fra nausee e svenimenti ingenuamente arrivò a pensare che il parto rappresentasse il traguardo di una condizione scomoda, ma era solo l’inizio.

Se ne rese conto la sera del suo rientro a casa con un bambolotto piangente fra le braccia e un marito insignificante al suo fianco.

La razionalità fece il resto. La consapevolezza di aver imboccata una strada senza ritorno la rese più forte e decisa continuando a non amare Giorgio e affezionandosi sempre più al piccolo Tommy.

Aveva promesso a sé stessa che avrebbe fatto di tutto per proteggere e amare quella piccola creatura.

Ora si rendeva conto di essersi sbagliata.

Il giorno dopo l’omicidio di Martina, Marica aveva reciso il cordone ombelicale che l’aveva sempre legata al figlio e, pur soffrendo, credeva fosse la mossa necessaria per evitare di farsi trascinare a fondo dagli eventi.

Sapeva di adottare un atteggiamento inumano nei confronti di Tommaso. Si stava trasformando in un’estranea colpevolista, incapace di mostrare una qualsiasi forma di empatia e di avvertire alcuna forma di rimorso.

In poche ore si era trasformata in giuria, giudice e carnefice.

Il cellulare del marito squillò e Giorgio rispose immediatamente. Marica si allontanò, trascinandosi in bagno, mentre il marito, con la solita odiosa piaggeria, ringraziava l’avvocato per la telefonata.

Aprì l’armadietto dei medicinali e prese la scatoletta dei sonniferi. Ingoiò una pastiglia e si avviò in camera.

Si buttò sul letto e si rannicchiò per la seconda volta nella giornata.

L’immagine di Tommaso si formò nella sua mente. Chiuse gli occhi, mentre le lacrime a lungo trattenute cominciarono a rigargli le guance e a bagnare il cuscino.

«Perché proprio a me?» mormorò.

«Perché proprio a noi?» la corresse Giorgio dalla porta della stanza.

Lei si voltò e vide suo marito sorridere.

«Stanno scarcerando Tommaso. Hanno una confessione e non è di nostro figlio».

Marica scese dal letto per raggiungere il marito, ma il sonnifero aveva cominciato a rilasciare il suo effetto, rallentando ogni suo movimento.

«Aspetta. Ti accompagno. Voglio esserci anch’io».

Ma Giorgio aveva già varcato la soglia di casa. Non l’avrebbe aspettata e, probabilmente, non l’avrebbe neppure perdonata.

Raggiunse l’armadio, tirò fuori il primo abito che le capitò fra le mani e cominciò a vestirsi.

Gridò il nome del marito un paio di volte, sapendo che non l’avrebbe sentita. Scese le scale con cautela, rassegnata a dover raggiungere il carcere da sola.

Sentì la porta d’ingresso aprirsi e Giorgio rientrare in casa.

«Andiamo a prendere nostro figlio, Marica. Fingiamo di volerci bene per qualche giorno ancora».

Lei lo osservò e annuì.

Pensò al portafrutta frantumato, pensò al suo matrimonio, pensò alla sua maternità. Si domandò quando aveva cominciato a fallire, quale era stato il momento in cui avevo deluso le aspettative come moglie e come madre.

«Perché proprio a me?» ripeté a bassa voce.

Uscirono da casa chiudendosi la porta alle spalle, regalarono un sorriso ai pochi giornalisti rimasti e salirono in auto.

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